La malattia può essere definita e descritta da diversi punti di vista.
A seconda della scuola di pensiero a cui si appartiene si può parlare di malattia in modi molto diversi tra loro, e così sta avvenendo anche grazie alla diffusione di quelle che ormai vengono chiamate Medicine non Convenzionali.
Non sono in grado di enumerare tutte le molteplici concezioni della malattia che sono alla base dei molteplici trattamenti terapeutici attualmente diffusi in Italia. Essi mi trovano in accordo o in disaccordo non sulla base degli assunti teorici dai quali sono animati ma sulla loro più o meno comprovata efficacia clinica.
Parlerò di malattia da un punto di vista invece che mette in accordo tutti noi: il punto di vista di chi sta male, poiché ognuno di noi si è sentito male almeno una volta nella sua vita.
Che cosa è la malattia per noi tutti?
La malattia è la nostra esperienza soggettiva di sentirci male, un male che sentiamo radicato nel nostro corpo oppure nell’anima (meglio chiamata ai nostri giorni psiche o mente).
Il nostro sentirci male ci porta a chiedere un aiuto, e così un’altra persona, un medico, osserverà dall’esterno il nostro corpo, ci ascolterà, userà tutti i mezzi che ha a disposizione per chiamare il nostro sentirci male con un nome, dargli una spiegazione, fornirci un rimedio: ed ecco che il nostro star male diventa lei, la malattia.
A volte avvengono situazioni per lo meno paradossali: ci sentiamo male, ma tutti dicono che non siamo malati, nessuno trova nulla di errato nel nostro corpo o nella mente ma noi continuiamo a sentirci malati. Chi ha ragione?
Viceversa, talvolta ci sentiamo bene: eppure una analisi casuale di controllo sancisce che siamo malati, a volta anche gravemente.
Allora la nostra esperienza soggettiva di sentirci male o bene non corrisponde alla verità: è illusoria o menzognera. Dobbiamo fare indagini più accurate ed affidarci a coloro che diventano più esperti di noi su noi stessi: è questa la alienazione più grande che la medicina tecnologica ha potuto fare, la oggettivazione dello stato di malattia ha tolto progressivamente credibilità al soggetto che sta male, a tal punto che ormai non vale più la pena di ascoltarlo, tanto vale inserirlo in un protocollo diagnostico ad alta tecnologia che sancisca oggettivamente il suo stato di salute o di malattia.
Questo atteggiamento scientifico e clinico, togliendo l’elemento di verità al nostro sentirci male, ci ha tolto l’unico punto di riferimento che abbiamo, il riferirci alla nostra esperienza soggettiva per orientarci nel mondo; ha reso inutile l’ascolto; ha completamente decontestualizzato la malattia e… ha reso anche impossibile la cura.
Duemilacinquecento anni fa Ippocrate di Coo raccomandava che:
“
I fattori che ci danno la possibilità di diagnosticare le malattie sono innanzi tutto la natura dell’uomo in generale e nel caso individuale ed inoltre le caratteristiche di ciascuna malattia. Quindi dobbiamo considerare il malato, di quale cibo si nutre e chi glielo somministra, perché ciò può rendere più facile o più difficile assumerlo; le condizioni del clima e la località in cui vive in generale e nel particolare: le abitudini del paziente, il suo modo di vivere, la sua professione e l’età. Quindi dobbiamo osservare come parla, come gesticola, i suoi silenzi, i suoi pensieri, se dorme e se soffre di insonnia, i suoi sogni: di che natura essi siano e quanto durano…
Dobbiamo indagare qualsiasi cambiamento nel decorso della malattia; quante volte questo cambiamento avvenga, la sua natura ed il particolare mutamento che induce la morte o una crisi…” ( La lezione di Ippocrate- Rivista ASLAI pag. 12)
Come possiamo capire, solo attraverso un ascolto attento del paziente tutto questo era possibile: su questa base esiste una radice comune tra le diverse forme di medicina antica sia in Occidente che in Oriente.
La medicina moderna tecnologica ha stravolto questi principi con la pretesa che erano obsoleti ed inutili.
Ritornando al rapporto con Sé stessi: del sentirsi male, meno male o bene.
In questa ottica alienante ed oggettivante il medico si sente inefficace e frustrato poiché il suo paziente, anche se teoricamente sano, si sente sempre male o guarisce poco, ed il paziente perde sé stesso rincorrendo uno stato di salute e di benessere che non sa egli stesso né conseguire né verificare.
Forse allora sia medico che paziente occorre che ritornino a chiedersi: Come mai ho perso la sensibilità di sentirmi male se sono malato, e di conquistare il benessere se invece non lo sono? Riportare la esperienza soggettiva del paziente di sentirsi male al centro del triangolo salute – malattia- cura permette di indagare all’interno di tali paradossi clinico- terapeutici e approfondire la ricerca su ciò che è malattia e su ciò che è salute.
Possono così sorgere ulteriori interrogativi.
L’esperienza soggettiva di sentirsi male è eliminabile in via assoluta per periodi molto lunghi di vita?
C’è qualcuno che può dire che non sente mai dolore o malessere nel corpo o nella mente? O che non lo ha sentito per periodi molto lunghi della sua vita?
Sarebbe interessante sviluppare una indagine allargata su questo, perché non mi sento di generalizzare quella che è la mia esperienza soggettiva.
In via preliminare spero di sì e penso che affinando le proprie capacità di sentire il proprio malessere o di sentire ciò che ci procura benessere fin dall’infanzia si pongono le basi per una buona salute nella vita adulta.
Posso riferire oltre che la mia esperienza personale di lotta quotidiana per la conquista di un po’ di benessere fisico e psichico, anche la storia di una mia zia, morta a 92 anni che mi raccontava il suo continuo contatto con il proprio corpo, su ciò che sentiva essere bene o male per lei, sia fisicamente che psicologicamente in ogni giorno della sua lunga esistenza caratterizzata da molto dolore, ma da nessuna malattia che la portasse alla morte.
Viene quindi da chiedersi: vogliamo evitare la malattia che ci porti alla morte oppure la nostra esperienza soggettiva di sentirci male? o tutte e due assieme?
Penso che ciascuno voglia evitare soprattutto la esperienza soggettiva di star male, poiché la morte è un male sconosciuto ed al tempo stesso inevitabile, mentre il dolore fisico e psichico è lì presente ogni giorno e ci impedisce di vivere.
Nel nostro cammino per una cognizione personale di salute e malattia possiamo ipotizzare che esista un lungo periodo di vita individuale di ciascuno in cui prevale il malessere soggettivo, più o meno grave, più o meno acuto, ma ancora la malattia “oggettivabile” non si è formata.
Ed lì che si costruisce il benessere e la cura per avere l’energia di vivere e la salute per proseguire il nostro percorso terreno e corporeo.
In questo arco di tempo, se la nostra sensibilità personale, educata e guidata dalla esperienza di medici convenzionali o meno, da terapia antiche o moderne, ma tutte orientate a renderci più sensibili e consapevoli di noi stessi e del nostro mente-corpo, ci permette di conquistare lo “star bene”, la malattia non sopravviene. Altrimenti insorgerà la malattia, uno squilibrio più o meno stabile dello psiche-soma che altererà tutto il nostro sistema e non sarà a quel punto facilmente eliminabile.
Sto parlando qui delle grandi patologie dell’era moderna: le malattie croniche degenerative, i tumori, i disturbi cardiovascolari, le grandi sindromi neuropsichiche (depressione e gravi nevrosi di angoscia).
A mio parere gran parte delle medicine non convenzionali nell’era moderna vanno ad inserirsi in quello spazio-tempo tra il sentirsi male e la malattia, e ci offrono un valido aiuto proprio perché invece di essere “moderne e tecnologiche” si rifanno ad una sapienza antica che per fortuna non è andata perduta.
Quella stessa sapienza che, per l’assenza di mezzi tecnici molto accurati, partiva dall’ascolto accurato del sentirsi male del paziente e di tutto il suo contesto personale, per poi indagare oggettivamente il corpo e la mente.
(dal gruppo Salute e malattia Solaris2002)